Black hat SEO: funziona davvero?

La Black hat Seo si riferisce a tecniche usate per migliorare il posizionamento dei siti web sui motori di ricerca, violando esplicitamente le loro linee guida, manipolando gli algoritmi e sfruttandone le vulnerabilità.

Fare Black hat SEO serve a far crescere più velocemente un sito web nei risultati di ricerca, ma a che prezzo? E poi, funziona davvero?

L’obiettivo principale è sempre lo stesso. Migliorare il posizionamento del sito in modo che gli stessi motori di ricerca propongano le sue pagine tra i primi risultati per determinate parole chiave, prima di quelle dei competitor.

Diversamente da ciò che fa la “White hat Seo”, per ottenere lo stesso risultato la Black hat Seo usa tecniche controverse con tattiche manipolative, mirate a sfruttare bug degli algoritmi.

Se mi volessi riferire alla cinematografia, direi che la “Black hat SEO” è il lato oscuro del posizionamento – per riferirmi a Star Wars – detta anche “SEO dal cappello nero” per prendere in considerazione il cowboy impegnato in attività illecite.

 

9 tecniche Black hat SEO

Ma facciamo una precisazione: le tecniche “Black hat SEO” non sono perseguibili legalmente, sono di diversa natura e conducono tutte presto o tardi a penalizzazioni.

Si sono evolute nel tempo facendosi sempre più raffinate, vediamone alcune.

  1. Indicizzazione → alcune intervengono in questa fase provando a facilitare l’incontro tra gli spider dei motori di ricerca e le pagine in questione. Si parla in questo caso anche di “spamdexing” (termine composto da “spam” e “indexing”), ossia indicizzare la spazzatura.

  2. Ottimizzazione → le tecniche calcano la mano su ciò che è considerato rilevante per i motori di ricerca, ma non per gli utenti, come un argomento o parola chiave.

  3. Cloaking → intercettato uno spider impegnato a scansionare le pagine di un sito web gli viene mostrata una versione diversa da quella visualizzata agli utenti, con contenuti pensati esclusivamente a facilitarne l’indicizzazione.

  4. Doorway page → una pagina che reindirizza in automatico verso un’altra in modo da influenzare l’indice dei motori di ricerca. Quando il visitatore arriva su questa pagina, dopo un istante viene riportato all’altra. Reindirizzare chi naviga sul sito ad un’altra pagina, nel caso in cui questa non fosse più disponibile o sia migrata, è sempre consigliato per migliorare l’esperienza utente. Ma in questo caso è eticamente una tecnica non corretta, poiché ai motori di ricerca viene offerta una versione diversa da quella per gli utenti.

  5. Boosting di pagine → le pagine create da poco non hanno un buon posizionamento sui motori di ricerca, ma se una pagina gode di un buon punteggio tra i risultati (perché forse contenente backlink di qualità) viene usata per linkare la risorsa da ottimizzare, fino al momento in cui questa non guadagnerà valore agli occhi dei motori di ricerca ed inizierà a camminare con le sue gambe.

  6. Backlink nascosti → un altro stratagemma per riflettere l’autorità di una pagina su un’altra e migliorarne così il posizionamento è inserire nella seconda link nascosti, dello stesso colore dello sfondo e di dimensioni talmente piccole da non essere visibili. Ma i motori di ricerca, sottolineano sempre, quanto sia importante realizzare contenuti di qualità, unici e di valore.

  7. Networking privato → una rete di “minisito”, o blog, con lo scopo di generare link in entrata verso la pagina della quale si vuole migliorare il posizionamento. Di solito sono blog di nicchia ben posizionati, aperti da molto tempo, o piccoli siti ben ottimizzati, ma dallo scarso valore per gli utenti. Piccoli siti web nati solo per generare link in entrata verso altre “risorse” da ottimizzare.

  8. Keyword stuffing → la tecnica più utilizzata soprattutto in passato e consiste nell’aumentare la frequenza delle parole chiave, utilizzate all’interno della pagina, per le quali ci si intende posizionare. Affinché la ripetizione delle parole chiave non disturbi la lettura e l’esperienza utente, vengono inserite tramite un codice nascosto dello stesso colore dello sfondo.

  9. Cybersquatting → riusare, dopo piccole modifiche, contenuti non più indicizzati perché pubblicati su un dominio scaduto. Non è raro che i seo back hat acquistino domini scaduti, anche di note marche, a cui i motori di ricerca attribuiscono autorità, per poi dirottarla verso i propri siti e contenuti.

 

Storie “horror” dal mondo SEO

Nel 2006 una nota brand tedesca di auto ha utilizzato tecniche Black hat SEO, in particolare le “doorway page”, nel tentativo di migliorare il posizionamento del sito web. Il risultato però fu quello opposto, disastroso! Google cancellò dai risultati le pagine incriminate, rese perciò irraggiungibili.

Ci volle molto tempo affinché i software di Google le indicizzassero nuovamente dopo che le tecniche dannose furono eliminate, perché al momento in cui i motori di ricerca si accorgono di manipolazioni verso i propri algoritmi, penalizzano le pagine rendendo ogni investimento SEO invano, compreso quelli svolti tramite il White hat SEO.

 

Conclusione

Il consiglio, per chi pratica SEO e per chi è assistito è evitare trucchi e tecniche malevole, intesi a far crescere il punteggio sui motori di ricerca. È importante chiedersi sempre quanto ogni accorgimento giovi all’utente ed alla sua esperienza sul sito.

La Back hat SEO promette risultati, ma a breve o brevissimo termine e gli svantaggi sono ad alto rischio, poiché presto o tardi si ottengono gli effetti contrari, fino ad essere penalizzati – o addirittura cancellati – dai risultati di ricerca, vanificando ogni lavoro e sforzo fatto fino a qual momento, compreso quelli leciti.